La patologia della vittoria

Cos'è la vittoria? La vittoria è quando siamo arrivati primi. Punto. Ci hanno sempre detto così, lo abbiamo visto nei film, sentito urlare dai telecronisti se non raccontato dai nostri genitori a tavola o prima di addormentarsi. 

C'è un problema, però, ed è grosso come una casa. Il problema è che arrivare primi quasi sempre non dipende del tutto da ciò che facciamo. Le variabili di una competizione sufficientemente equilibrata sono tali per cui è difficile controllarle tutte, perciò in sostanza non possiamo col nostro comportamento essere sicuri che arriveremo primi. Da questo consegue un problema ancora più grosso. Avete presente quando dovete fare qualcosa il cui esito non dipende da voi? Che ne so, un esame medico oppure una verifica a scuola. Provate un senso di preoccupazione se non si ansia, vero? E lo provate perché non potete controllare la cosa, non dipende da voi l'esito di questi eventi. In breve l'assenza di controllo genera disagio. 


Lo stesso accade per lo sport. Se la vostra vittoria è arrivare primi in una competizione equilibrata, mi dispiace dirvelo ma non potete controllarne l'esito, con le conseguente nefaste che ne conseguono e che vediamo e leggiamo quotidianamente nella vita sportiva: difficoltà a gestire lo stess, ansia, crolli emotivi. Il meccanismo purtroppo genera dei comportamenti che chiamo normalmente di "patologia della vittoria". Citerò qui solo i due statisticamente più ricorrenti:

- Scorrettezze: chi è afflitto da "disagio da vittoria" ha la necessità di vedere il proprio risultato "nominale" appeso al muro. Ecco che a volte si lascia andare a scorrettezze comportamentali o regolamentari (fino ad arrivare a volte a decisioni più gravi, ad esempio legate al doping) pur di arrivare al proprio obiettivo, solitamente trincerandosi dopo dietro una delle più dannose frasi del mondo sportivo, ovvero "l'importante è vincere";

- Abbassare la difficoltà: chi ha patologico bisogno di arrivare primo inizia una sorta di "corsa al ribasso", cioè sceglie competizioni di livello più basso rispetto alle proprie competenze. Ciò assicura (quasi sempre) la riuscita del progetto e placa le voci interiori.

In entrambi i casi si tratta di comportamenti deviati che esprimono bisogno di raggiungere una vittoria esteriore che non ha niente a che fare con un percorso sportivo. Cosa fare allora? Non voglio certo consigliarvi di ignorare i risultati sportivi, ma soltanto di iniziare ad avere una nuova concezione della vittoria. Non più arrivare primi, ma migliorare le proprie competenze, la propria programmazione, i propri obiettivi. Cose cioè che sono da voi controllabili e che hanno come probabile conseguenza a lungo termine anche vincere le competizioni. Se definite degli obiettivi SMART (vedi l'articolo su questo tema) e  programmate bene il loro raggiungimento, questo vi darà delle nuove e utili competenze e sarete dei vincenti. Punto. Il resto verrà da sé.