Il tabù degli aspetti mentali nello sport

Ormai sta diventando una costante: nella quotidianità dello sport dei media si parla sempre più spesso di difficoltà mentale, crollo emotivo, carenze caratteriali e termini simili, pressoché in tutti gli sport. Ne dovrebbe essere diretta conseguenza quella di prendere seriamente questi aspetti, quelli di mental training per dargli un nome unico, affrontandoli scientificamente e con metodo. Prevedere in primo luogo programmi di allenamento mentale come viene fatto per gli altri tre elementi che costituiscono un atleta, ovvero la tecnica, la tattica e la preparazione fisica.


E invece no. Quello che accade è al massimo una sorta di integrazione dei programmi pensati e svolti su esigenze e strutture tecnico-tattico-fisiche con una funzione mentale. Voglio dire che se un tecnico sportivo deve pensare degli esercizi per i suoi atleti può darsi (dubitativo) che si domandi anche: ma a livello mentale a cosa può servire? E magari modifichi quei programmi affinché gli atleti possano trarne un beneficio anche da quel punto di vista. Tutto qui. Tuttavia quasi sempre non vengono previsti dei momenti settimanali, o comunque con una periodizzazione che consenta un lavoro costante, dedicati solo al mental training, se non con atleti molto promettenti o già di medio-alto livello. Perché succede?

A mio parere ciò è dovuto a motivi culturali. Mentre è ormai dato per assodato per gli altri tre elementi che per ottenere dei buoni risultati sia necessario uno sviluppo costante degli stessi, iniziato fin dal primo approccio allo sport, per gli aspetti mentali non è così. E ciò lo si vede chiaramente in caso di difficoltà. Pensiamoci bene, se un atleta ha grosse difficoltà nell’apprendere un gesto tecnico è normale cercare di aiutarlo perché superi questo scoglio. Nessuno direbbe mai “se non ci riesce è perché non è il suo sport”. Stessa cosa sugli aspetti tattici e su quelli fisici. Proprio questi ultimi negli ultimi decenni hanno superato un blocco culturale simile. Qualche tempo fa le abilità fisiche erano viste come qualcosa di dato dalla natura. Se ne eri in possesso bene, se invece avevi qualche debolezza evidente o cronica (ad esempio la tendenza ad infortunarsi alle ginocchia) semplicemente non eri adatto. Punto. Adesso le cose sono cambiate, e le eventuali debolezze fisiche sono semplicemente viste come sfide da superare nello sviluppo dell’atleta. Per la parte mentale purtroppo è ancora così. Chi ha difficoltà in questo campo viene ancora oggi “bollato” come un atleta menomato, qualcuno costretto a “curarsi”. Ovviamente anche il modo in cui l’atleta stesso vive questi aspetti è assai più negativo rispetto a un infortunio fisico o una difficoltà di apprendimento tattico. Eppure per questo motivo, paradossalmente, proprio questi aspetti in quanto meno curati rischiano sempre più di frequente di essere decisivi dal punto di vista agonistico. Ma oltre a questo, questa mancanza rischia di fare danni alle persone, prima ancora che agli atleti.


Come cambiare le cose? Sbloccando l’ostacolo con la stessa forma che lo costituisce, ovvero con azioni che agiscano sulla visione generale del tema. Sensibilizzando gli operatori sportivi, promuovendo dibattiti e incontri, pubblicizzando le buone pratiche di singoli, delle società sportive e delle Federazioni. E soprattutto iniziando a parlarne, fin dalle scuole sportive di base, e cercando di far uscire allo scoperto tutti coloro che ancora oggi, per non sembrare menomati, si tengono tutto dentro. Almeno fino a quando ce la fanno.