Gestire le distrazioni: l’arma a doppio taglio della vendetta

Il tema degli elementi distraenti (che da ora in poi chiamerò distrazioni) è sempre molto attuale. Lo è da quando il bambino che alleni ti dice che non riesce a giocare perché c’è un po’ di vento, o dalla prima volta che un allievo (o tuo figlio?!) dice di non volere al campo i genitori mentre gioca. Nell’ambito del mental training è uno dei fattori più osservati perché uno dei fenomeni più evidenti di causa-effetto tra evento (distrazione) e risposta (positiva o più spesso negativa) dell’atleta. 


Ovviamente una delle distrazioni di cui si parla di più è quella delle persone fisiche che oltre all’atleta sono presenti durante il gioco, cioè gli avversari e/o il pubblico. Ad esempio sempre più spesso si dice che il pubblico è “un fattore” sulla prestazione sportiva. E ultimamente sento parlare in termini euforici di una particolare reazione, quella che io chiamo la “reazione della vendetta”. In sostanza si tratta di una reazione che anziché portare ad una sorta di calo della motivazione, o paura, o deconcentrazione, cioè quelle risposte nocive per l’atleta, porta al contrario ad una determinazione maggiore dovuta all’idea di dover dimostrare qualcosa ai cosiddetti “disturbatori”. Si tratta di un meccanismo mentale per cui il disturbo diventa offesa personale, profonda mancanza di rispetto, ovviamente ingiusta, che perciò richiede un’immediata dimostrazione del successo per poter ripristinare l’orgoglio, l’immagine dell’atleta e l’ingiustizia stessa. Gli esempi possono essere decine, sia per gli sport individuali che per quelli di squadra, amplificati da frasi e gesti rivolti al pubblico o agli avversari e, ahimè, amplificati dai media sempre affamati di similitudini guerrafondaie. 

Tralasciando però qualsiasi giudizio etico ciò che mi interessa sottolineare è che questa risposta, esaltata quando le cose finiscono bene, il più delle volte (e questo non va sui giornali) non funziona se non in una fase di breve termine. Anzi, nella mia esperienza posso dire che il più delle volte è controproducente. E questo perché una risposta del genere presuppone di per sé l’aver consentito alla distrazione di entrare dentro di sé, di smuovere gli equilibri, di costringerci a pensare ad altro. Tutte cose che quasi sempre a lungo termine incidono negativamente su una prestazione.  Piuttosto la risposta ad una sollecitazione di questo tipo dovrebbe essere affrontata e preparata, per quanto possibile, in sede di allenamento. Non che si possa riprodurre esattamente il contesto della gara, ma allenare l’atleta a rimanere concentrato su ciò a cui deve pensare nonostante la distrazione, fornendolo di strumenti adeguati per riuscirci, è la strada corretta da percorrere. Si può iniziare in molti modi, anche solo mettendo (pessima) musica durante la seduta di allenamento, e da lì passere a routine, mantra o tecniche di rilassamento/visualizzazione. È infatti solo rimanendo in più possibile insensibili alle distrazioni che riusciamo a neutralizzare i potenziali danni che queste possono arrecare alla prestazione. 

Ok, ma non ci sono eccezioni? Ecco forse una, azzardando, ci sarebbe. Nel caso in cui un atleta non stia riuscendo a focalizzarsi sul proprio compito come dovrebbe, una sorta di “scossa” potrebbe servire. Sarebbe un po’ come dargli un cazzottone di Bud Spencer, di quelli che può stordire un sano o rinsavire lo stordito. Un rischio insomma. Ma onestamente non ne abuserei.